Gli uomini, e anche parecchie donne, corrono dietro al pallone per un milione di ragioni diverse. Qualcuno lo fa per impulso, con la gioia nei piedi, senza farsi troppe domande. Qualcuno insegue un mito, che sia quello olimpico o quello di una grande squadra perita tutta insieme su un aereo. Qualcuno scappa dalle urla dei genitori sugli spalti, non sapendo decidere se competizione vuol dire fratellanza o cattiveria. Qualcuno per scaricare la tensione di un ufficio, una volta la settimana, nonostante gli anni, i chili di troppo e le ginocchia che fanno male il mattino dopo. Qualcuno per i soldi, ci sono anche quelli.
Ci sono uomini che corrono dietro a un pallone per abitudine, come guardare una donna che attraversa la strada in un giorno qualunque in una città qualunque. Qualcuno perché suo padre lo ha portato allo stadio in una domenica grigia d’autunno quando aveva sei anni e da allora non riesce a togliersi il boato dello stadio dalle orecchie. Qualcuno insegue la palla per riscattarsi. Qualcuno perché è cresciuto senza saper giocare a calcio, sempre a bordo campo a guardare con invidia e finto disprezzo, finché un giorno si è accorto di cosa si stava perdendo, e anche se è scarso, non ha più smesso di correre.
Un fine settimana su due, io lo trascorrevo con mio padre. I miei avevano divorziato quando avevo cinque anni e il mio fratello maggiore dieci, e così avevano stabilito un giudice e i nostri genitori per noi. Non era facile, ma ce la mettevamo tutta, tutti quanti. Più avanti vennero nuove famiglie, un altro fratello ancora, e maggiore serenità. Ma allora non fu una passeggiata.
Il calcio per me è stato per tanti anni il simbolo del malessere che provavo la domenica dal tardo pomeriggio in avanti. Una parte di me voleva tornare a casa da mia madre. Una parte non voleva andarsene. In ogni caso, ci sarebbe stata quell’atmosfera strana di chi pretende di starci dentro ma invece non è sereno per niente. Questa sensazione per me aveva il suono della sigla di ‘Novantesimo minuto’. Mio padre e mio fratello seguivano con passione le vicende calcistiche domenicali, mio fratello poi giocava e lo faceva anche bene. Io ero sempre stato scoordinato, saltavo da uno sport all’altro senza trovare una vera passione, solo la piscina mi diede almeno un po’ di preparazione atletica in quegli anni. Così sui campetti improvvisati da ragazzi, prima mi avevano messo in porta, poi direttamente a bordo campo. In poco tempo, venne il disinteresse e poi il disprezzo, che spesso nasconde emarginazione.
Così ‘Novantesimo minuto’ per me era l’inizio di un calvario, che continuava con ‘Domenica Sprint’ per gonfiarsi nella ‘Domenica sportiva’, in mezzo a tutto ciò c’era il viaggio da Torino a Rivoli per tornare a casa, l’odore di sigarette di mio padre in una casa di non fumatori, facce strane, quella roba lì…
Tutto questo è durato per anni. La domenica sera è diventato un mio personale buco nero, finché ho capito di aver trovato la persona giusta quando ho sentito che con lei la domenica sera andavo a letto relativamente tranquillo. I figli hanno fatto il resto, e adesso sono io che cerco di infondere coraggio, o almeno ci provo.
Comunque, un pomeriggio adolescenziale, gli amici con cui ascoltavamo musica e studiavamo insieme (in quest’ordine di importanza) in un assolato pomeriggio di noia estiva improvvisarono una ‘tedesca’. Uno in porta a testa, chi sbaglia il tiro al volo e la manda fuori finisce in porta, punteggi in base alla difficoltà del tiro, chi finisce i punti viene eliminato e fucilato a pallonate, retaggio partigiano calcistico.
Cosa mi ero perso?!? Non potevo crederci!!! C’erano gli amici, a cui non fregava nulla che io facessi pena coi piedi, anzi era meglio, c’era qualcuno da fucilare prima. Non c’era giudizio, solo divertimento e spacconate tra ragazzini. Alcuni di quegli amici suonano tuttora con me nel gruppo, per capirci.
In seguito vennero le partitelle, i partitozzi, nelle piazze, sulla spiaggia o nei campi con le buche di periferia, e da allora non ho mai smesso di correre dietro al pallone.
Il mio talento calcistico rimane inesistente, i fondamentali non ci sono, rimane forte scoordinazione e una visione di gioco piuttosto miope. La bici mi ha salvato i polmoni, e almeno corro, giocando in difesa, affidandomi di volta in volta a un buon centrale che mi diriga. Troppo mite d’animo per essere uno stopper come si comanda, faccio del mio meglio, e corro dietro al mio pallone. Ad ogni tocco, ad ogni falcata, ad ogni sorriso o battuta di un compagno di squadra o di un avversario, faccio pace col passato.
Perché vi racconto tutto questo?
Perché mi interessa parlare a chi il calcio lo segue poco o nulla. Siamo tantissimi. E ciascuno di noi ha una storia per cui non ama o non ha amato il calcio, così come ogni grande campione del presente e del passato ha una storia e una ragione per cui corre dietro al pallone. Il tifo cieco e ignorante, la violenza negli stadi, il business che si mangia tutto, lo scarso senso di appartenenza dei giocatori, tante trasmissioni televisive con poca anima e nessun senso narrativo, l’epica dei numeri che si è mangiata l’epica degli eroi. Il semplice, plateale, puro e cristallino disinteresse per ventidue maschi sudati che cercano di rubarsi una sfera di cuoio dai piedi e infilarla in un paio di reti…
Tutti ottimi motivi per detestare il calcio.
Ma ciascuno ha una storia. Ed è solo la sua, anche se a volte si assomigliano in molti elementi, ciascuna persona ha la sua storia col calcio, che lo adori o lo detesti.
Io vi ho raccontato la mia perché martedì sera scenderò di nuovo in campo con la NIC per la ventiseiesima Partita del cuore, a Torino, la nostra città. Chi se ne frega se non tifo Juve, lo Juventus Stadium è uno spettacolo, e non c’è campanilismo che mi possa impedire di scriverlo, anche se tifo Toro. Alla Partita del cuore, l’unico senso di appartenenza che voglio sentire, è quello con tutte le migliaia di storie che ci sono dietro alla ricerca. Giochiamo per @ e @ che fanno un lavoro prezioso che ha bisogno di essere finanziato e sostenuto. Dietro alla ricerca, ci sono le vite di migliaia di persone, tutte diverse, tutte uniche. Ciascuna avrebbe la propria storia da raccontare, cosa rappresenta per un malato la ‘sua’ sindrome, la sua malattia, la sua battaglia, la sua sfida. Qual è la storia che si racconta mentre corre dietro al suo metaforico pallone.
Martedì sera quelle storie non le ascolteremo che per brevissimi istanti, nel clamore dei flash, tra un fallo e un calcio d’angolo delle varie star che scenderanno in campo con noi. Ma non dimentichiamolo mai. Dietro ogni divisa, dietro ogni cattedra, banco, camice o lettino d’ospedale, ci sono uomini e donne che corrono dietro a un pallone.
Quando smettono di farlo da soli, alzano la testa, vedono un compagno di squadra, o undici compagni, o uno stadio intero, non sono più soli.
In ultima analisi, noi tutti corriamo dietro a un pallone per non essere soli.
Venite allo stadio martedì, o fatevi una risata guardandoci in tv, ma soprattutto donate con un sms solidale al 45540.
Grazie
Tomi